giovedì 22 settembre 2011

Paris-Brest-Paris


Riceviamo e pubblichiamo il contributo di "Ser Pecora" sulla sua Paris-Brest-Paris 2011.


Me ne sto seduto con una lattina di birra in mano, coi piedi nudi sull'erba, su una aiuola all'esterno del "Gymnase des droits de l'homme" a godermi i raggi del tramonto prossimo.
Lo sguardo cala sulle scarpe abbandonate vicino ai piedi. Vedo la puzza.
I piedi in compenso li vedo, ma non li sento. 2gg fa era un formicolio, ora il niente. Strizzo le dita del piede sinistro continuamente sperando che diano un segno di vita. Invece no.
Tutto attorno gente con la faccia stanca e maglie colorate con su scritto "audax" e "randonneurs" a scelta.
La mia PBP finisce cosi'.
Poi sarà la lotta col sonno sul treno per tornare a casa ed altri 5km di pedalata per molestare ancora un po' giunture e chiappe.
Poi la doccia, una spalmata di crema antidecubito al deretano ed il sonno a volontà.
Con un unico pensiero: al risveglio ci sarà aereo, ore di auto ed un letto d'albergo ad aspettarmi a Sölden, in Austria, per completare questa settimana da 1470km e 15000mt di dislivello. Circa.

Durante i 1230km della PBP ho avuto un gran tempo per pensare al perchè. Perchè si fanno queste "cose"?
Per provare qualcosa a qualcuno? Per provare qualcosa a se stessi? Per bullarsela con gli amici o con degli sconosciuti sui forum? Per cercare di superare una crisi di mezza età? Perchè non si ha di meglio da fare?
In fondo ci sono tanti modi alternativi per passare 90h a rompersi il culo su una sella, lottare contro il sonno e pedalare e pedalare e pedalare.

Lance Armstrong in un'intervista ha detto che andare in bici è il miglior esercizio intellettuale. Cosa resta da fare stando seduti su un trespolo per 5h se non pensare?
Sostanzialmente sono d'accordo, anche se pensare per 90h puo' essere un esercizio tanto doloroso quanto farsi bollire i testicoli per lo stesso tempo stretti in un fondello Assos.
Soprattutto quando si pensa proprio e solo ai propri testicoli bolliti, al culo che chiede pietà ed ai piedi che chissà mai se li percepiro' di nuovo.

I randonneurs più esperti ovviamente ti dicono che no, non si fa cosi', bisogna concentrarsi sulle piccole tappe, il prossimo controllo, i prossimi 100/80/50/20km. Bisogna ragionare per piccoli traguardi, passo-passo.
E sia, cosi' mi ritrovo a pensare che chissà se al ritorno allo stesso ristoro di St. Nicolas du Pelem avranno ancora quella insalatina russa con quel gusto acidulo buonissima che ho mangiato all'andata.
E se non ce l'hanno più? E se arrivo ad un'ora per cui mi saranno offerti solo caffé e la solita roba dolce? Meglio pensare al mal di culo tutto sommato.

O non pensare affatto. E abbandonarsi alle impressioni. Ai suoni, alle luci, i luoghi. Come la scalata al Roc Trevezel, la salita più lunga della PBP sopra Brest. Che intravedo nell'ormai incombente tramonto e tra la fitta nebbia della discesa. Discesa al termine della quale, dopo un labirintico giro per la periferia arrivo al ponte Iroise, con vista notturna sulla città e sulla rada spazzata dai soliti venti tesi che provengono dall'atlantico.
E poi nuovamente la salita nell'inizio del ritorno, in mezzo alla nebbia sempre più fitta, mulinando il rapportino nelle prime ore della notte, mentre in direzione opposta una miriade di luci scendono in fila indiana in picchiata su Brest come degli alieni venuti dallo spazio.

Questo è quello che mi piace delle randonnées: La notte, le notti.
Mai come in bici tutto cambia la notte: la percezione della strada, di quello che ci sta attorno. Pedalare nel buio assoluto della campagna francese ascoltando solo se stessi. Con la strada illuminata dai propri faretti che si mostra davvero come un unico budello di asfalto di pochi metri davanti a noi. Pensate all'inizio di "Lost Highway" di D. Lynch.
Ed attorno solo cose intraviste, che si deformano, si amplificano. Diventando a volte spettacoli surreali di un fascino unico. Come pedalare in mezzo ad un "parco eolico" sotto questi mulini a vento alti 40mt che fanno sibilare le loro pale nel buio. O lo spettacolo indimenticabile di un enorme innaffiatore lungo decine di metri che innaffia il sottostante campo mentre la notte è squassata da lampi, tuoni ed un'incessante pioggia.
Immagini che mi portero' dentro per sempre, con insensata gioia.

Mi piace quest'idea delle randonnées come un viaggio in barca. Si mollano gli ormeggi da un porto sicuro e si prende il largo nella vastità, qui in kilometri lineari, del mare. Con le sue incertezze, i suoi rischi, i nostri dubbi.
Spesso molto reali, visto che non è raro che qualcuno ci lasci le penne, o per errori propri, o per qualche pirata. Non del genere Jack Sparrow, ma di quello molto più infido della strada: di quelli che usano le strade di campagna come autodromi, o girano sbronzi il sabato sera, uccidono e poi scappano.

Ogni controllo è un porto da visitare. In cui fare rifornimento e ripartire. Dove scambiare quattro chiacchere con gli altri marinai. Dove vedere le stesse facce di altri che vanno al nostro ritmo lungo la stessa rotta, e scambiarsi sguardi di simpatia, nonostante vestano maglie che li identificano come provenienti da un altro mondo ("British Columbia Randonneurs"). Ma anche sorbirsi i discorsi di un piemontese, che rassicurato dalla stessa nazionalità e persino dal fatto che condividiamo la stessa "padanità", mi sbrodola addosso tutta la solita solfa del caffè schifoso e della pasta scotta, dell'Italia che è il più bel paese del mondo e degli spagnoli (vocianti qualche tavolo in la) che sono fastidiosi "perchè sono come i nostri terroni".
Ironia della sorte durante la terza notte avrei dovuto fare di tutto pur di liberarmi della compagnia di un altro connazionale, per niente terrone, che per ore ha urlato tutta una sequela di saggi consigli ("steel is good for this" -dandosi vigorosi colpi alla schiena - --o al culo, meglio non saperlo--) ad un giovane tedesco in un inglese maccheronico intermezzati da agghiaccianti "ROTTA!" gridati nella notte. Capendo persino io dopo un pezzo che volevano indicare ogni buca, sassolino, rugosità del manto stradale ad uso di chi seguiva.
Ma che sortivano solo l'effetto di far ridere come un matto il giovane tedesco che mi lanciava sguardi del tipo "ma quanto scemo è questo?", e di far domandare tra di loro due americani di Chicago su what a fuck sto tizio continuasse a gridare. Un giapponese in tenuta Rapha manteneva indefesso il suo aplomb invece. Mentre a chiudere il gruppo ci pensavo io chiuso in un imbarazzato silenzio ed a corrispondere imbarazzati sorrisi al giovine tedesco.

Alla fine pur di ritrovare il mio equilibrio di velista solitario a pedali mi sono fermato al ciglio della strada a bere un caffè di cui non avevo voglia offertomi dalle solite famigliole francesi che si gustano lo spettacolo (?) della PBP lasciando l'allegra combriccola al suo destino. Sicuro che almeno colpi di sonno non ne avrebbero avuti.

Il caffè pero' ha per me un notevole effetto lassativo, che combinato coi rigori atlantici della Bretagna, mi ha costretto poi a più di una sosta in rada.
Consentendomi pero' di farmi due risate mentre espletavo i miei bisogni fisiologici osservando tra le foglie di pannocchia gli altri ciclisti che sfilavano lungo la strada. Un'ilarità fanciullesca.

Come ogni viaggio che si rispetti, alla fine ci deve essere il ritorno.
La rassicurante visione del già visto. Del già conosciuto. Che mi fa alzare la media per la smania idiota di sbrigarmi. Di fare prima. Come se la pena della fine del viaggio dovesse essere abbreviata il più possibile.

Poi l'arrivo. La soddisfazione. I sorrisi degli altri. I "Bravo!" della gente lungo la strada. Come ad un reduce o allo scemo del villaggio che sorride. E quella pazza idea di rimettersi subito in sella, di ripartire. Che si concretizzerà poi davanti al computer, a casa, andando a visitare compulsivamente i siti di ogni manifestazione che abbia kilometraggi a 4 cifre o dislivelli a 5.

Anche se 4gg dopo, a pochi tornanti dal passo Rombo, alla Öetztaler radmarathon, stufo e stanco, mi maledicevo per l'idiozia, per la mancanza di senso di spendere tante energie e fare tanta fatica per fare poi cosa? Come se il mondo avesse bisogno ancor di più di tante energie sprecate, come mulinare in tondo le gambe. A bruciare kili di carboidrati e proteine per portare un trabiccolo in cima ad un monte. Alla faccia di tutto quello che nel mondo meriterebbe davvero fatica ed impegno.

Mentre pensavo questo, al mio fianco, un tedesco spossato quanto me lanciava un sonoro e lungo peto. Senza battere ciglio, continuando a fissare i tornanti con la sua maschera di serietà e sofferenza.
Dall'altro fianco, un italiano (romagnolo o emiliano) su una sbarluccicante Pinarello, sentenziava ad alta voce: "grande! questa si che è una scoreggia, cazzo!"
Di colpo mi è tornata in mente la questione del perchè. Ed una possibile risposta: Borges ha scritto riguardo il viaggio di Ulisse che è come quello del capitano Achab: "è una occulta ed intricata forma di suicidio".

4 commenti:

  1. diciamo che non mi è prorio venuta la voglia di farla un randonnèe ma devo ammettere che appare divertente suprattutto il trovarsi incastrati tra altri ciclistici fanatici che propongono il loro lifestyle e usanze abbastanza curiose. Come sempre ser pecora complimenti per il racconto. Aspetto un libro...

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  2. Un po' ho pedalato pure io, grazie :-)

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  3. Com'è che mi affascinano così tanto queste esperienze?
    Devo solo trovare la risposta alla solita domanda: "Perché lo fai?".
    Bel articolo, grazie!

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