L’ultimo post di Tarantola ci invita a riflettere e allora proviamoci.Ma su cosa: sul processo di costruzione del mito ciclistico? Servirebbero branchi di storici, torme di sociologi per rispondere. A me interessa provare a partire dalla scoperta inquietante che la bicicletta lasciata sola non si regge. Cade, si appoggia al suolo e giacce, immota. E’ il destino di tutti i gravi direbbe Newton. Nessuna nuova scoperta. La bicicletta esiste all’interno di una relazione umana. Winnicott, che era un pediatra e pure uno psicoanalista, diceva che non si può comprendere un bimbo senza includere nell’osservazione la relazione con la sua mamma. Forse Tarantola, prossimo a diventare bi-padre ci spinge a riflettere sulla relazione fra bicicletta, oggetto, grave che in solitudine tende a cadere, e il suo pedalatore/trice.
Il post ci invita a fare un esercizio critico: analizzare con mente fredda e razionale la bicicletta per riconoscere che il mezzo, spesso oggetto di culto, non è altro che un insieme di materia inerte.
Verissimo, ma insufficiente. Insufficiente perché gli umani sono tali anche perché tendono a costruire nella loro mente delle relazioni (che poi hanno anche delle conseguenze nella realtà ovviamente) ad alto valore emozionale.
Si entra in un campo di non facile esplorazione. Le dimensioni emozionali che investono una bicicletta sono molteplici.
Tendo a pensare che la costruzione di leggende sportive intorno alle imprese epiche di atleti fuoriclasse solo marginalmente sia da attriburie ai loro mezzi. Solo un pubblico molto selezionato include nella leggenda anche il marchio, ma questo non significa che il marchio in questione non abbia contribuito a costruire la leggenda.
La bicicletta è un oggetto che entra nella vita delle persone in una fase molto precoce: entro i 5 anni di vita la maggior parte dei bambini e delle bambine sanno andare in bicicletta, almeno nella realtà nella quale mi muovo io questo mi pare di vedere. L’oggetto poi seguirà per lunghi anni la vita delle persone e per alcune diventerà anche uno strumento sportivo, per la maggior parte solo un mezzo di locomozione o di svago non agonistico.
Il legame con l’oggetto si instaura in tenerissima età e da subito si configura come uno strumento di esplorazione, di gioco, di libertà, di misura con il rischio. Non tutto e non subito, ma gradualmente l’oggetto inanimanto diventa un elemento centrale e spesso unico di alcune esperienze. Secondo me tale particolarità è così specifica che si tende a percepire la bicicletta come un oggetto quasi domestico: qualsiasi persona sa come si usa una bicicletta ed è in grado di utilizzarla. La semplicità di costruzione e di utilizzo rende i “quattro tubi” un esempio notevole delle capacità creative dell’uomo.
Si tratta di un’invenzione che raggiunta la canonizzazione, nella sua sostanza più semplice, un telaio, due ruote, un movimento di trasmissione, si riproduce ormani da poco più di un secolo senza fondamentali cambiamenti. Il padre di mio nonno andava in bicicletta, mio nonno anche, mia madre, da buona padana aveva la sua bicicletta da donna, io pedalo e mia figlia si diletta con la sua biciclettina. I mezzi sono concettualmente identici, cambiano alcuni accidenti (che ne hanno migliorato l’efficienza), ma la sostanza dell’oggetto è la stessa. Se il mio bisnonno ripiombasse sulla terra, potrebbe salire sulla mia Legnano senza battere ciglio, e andarsene all’osteria!
Nella nostra cultura la bicicletta è un oggetto amico, conosciuto, utilizzato (se non da noi, dai nostri figli, amici, parenti vicini o lontani): tutti ci si sono messi in relazione.
In questo senso la meraviglia nasce dallo scoprire che già molti decenni fa l’uomo aveva piuttosto chiaro cosa voleva, e in pochi anni è riuscito a formalizzare e poi creare l’oggetto del desiderio.
Forse il parallelo che mi viene da fare è con il libro, inteso come oggetto, come insieme di pagine numerate, stampate e rilegate.
Anche se costantemente le statistiche ci dicono che noi italiani leggiamo poco e sempre meno, in ogni caso, il libro è un oggetto con il quale da centinaia d’anni l’uomo si relaziona. Anche un analfabeta sa riconoscere un libro, sa mettercisi in relazione, anche se magari non sa bene cosa farci. La bicicletta fa parte in modo profondo di una cultura nazionale.
Poi certo va detto che per un gruppo ristretto di persone, la bicicletta diventa uno strumento che rasenta l’arte, o quanto meno l’artigianato di altissimo livello. In questo caso per decifrare tali contenuti emozionali non bastano più le informazioni di base, ci si deve addentrare in un mondo nel quale la bicicletta diventa lo strumento o il mezzo per soddisfare bisogni di conoscenza, di bellezza, di realizzazione di sé, di guadagno, di riscatto sociale, di comunanza. Si della comunanza ho detto sul blog dei Lobos, ci ritornerò, è un pensiero a cui tengo molto.
Mi rendo conto che ho parlato di biciclette, di relazioni, ma non di personaggi: io penso che la storia, e quella della bicicletta è un pezzo della nostra storia sia costruita dai piccoli accadimenti (per i patiti della storia e della storiografia il punto di riferimento sono i francesi dell’Ecole des Annales) che moltiplicati per milioni di persone rendono speciale ed emozionalmente incandescente la relazione fra bicicletta e umano. Per quanto sia deprimente il ciclismo professionistico su strada, è ancora uno sport di popolo, ed è lì nel popolo che vanno ricercati i significati. Solo una cultura può produrre dei miti. Senza cultura non ci possono essere miti.
In tal senso si compie nuovamente il miracolo, per chi ci crede, che la bici da oggetto inanimato diventa un soggetto-oggetto prima nella mente e poi attraverso il corpo.
Il miracolo è compiuto la bici sta in equilibrio e procede. L’uomo la guida…e la donna? Pure!
Contributo di Emanuele "Ema" Gandolfo